IL RICORDO E LA PIETA'...
Roma 11.01.1979 - Non erano nemmeno trascorse ventiquattro ore dalla tragica morte del giovane del Fronte della Gioventù, Alberto Giaquinto, ucciso da un poliziotto in borghese nel quartiere Centocelle, che un’altra tragedia stava per verificarsi sempre nella città di Roma. 11 gennaio 1979, mentre i telegiornali nazionali battevano la notizia e mettevano in scena la parodia sulla verità dell’omicidio, nel quartiere Talenti, Montesacro alto, in via Capuana, angolo con largo Rovani, davanti al bar “Urbano” erano seduti tre ragazzi intendi a chiacchierare. Alessandro Donatone, Maurizio Battaglia e Stefano Cecchetti, tutti diciassettenni. Mancavano pochi minuti alle otto di sera quando una macchina a fari spenti si avvicinò al bar. Una Mini Minor verde metallizzato bicolore, con il tetto bianco e una targa molto strana, G2. All’interno, tre persone, tutti a volto coperto da passamontagna. Il primo era al volante, mentre gli altri due, abbassarono il finestrino e a braccia tese impugnarono due pistole, una calibro 7.65 e una calibro 9. I due iniziarono a sparare e per tre interminabili minuti, sui ragazzi e sul bar cadde una pioggia di piombo. La macchina, prima di dileguarsi, si fermò di nuovo all’angolo con via Breme, questa volta per colpire un altro gruppo di ragazzi. Sul selciato, i corpi dei tre ragazzi, feriti gravemente ma ancora vivi. Furono soccorsi da alcuni passanti e trasportati d’urgenza all’ospedale. Alessandro Donatone, fu raggiunto da tre proiettili al gluteo, all’anca e al polso. Ricoverato nel reparto di chirurgia e sottoposto a continue trasfusioni di sangue. Maurizio Battaglia, invece, fu colpito lievemente alla gamba destra. Stefano Cecchetti, infine, fu colpito al bacino e al torace, provocando gravissime lesioni interne e la rottura dell’aorta. Fu sottoposto ad un intervento chirurgico per quasi sei ore ma il suo cuore smise di battere poco dopo, senza più riprendere conoscenza. I
Intanto, alla redazione giornalistica dell’Ansa, la rivendicazione, da parte di un uomo, del ferimento di tre fascisti ad opera dei “Compagni organizzati per il comunismo”. La famiglia Cecchetti abitava in un appartamento di via Davanzati. Il padre era usciere in banca. La figlia Carla, 21 anni, era iscritta alla facoltà di Giurisprudenza. Il figlio minore, Stefano, era nato a Roma il 25 maggio 1962, frequentava il terzo anno del Liceo Scientifico Nomentano. Era un simpatizzante del Fronte della Gioventù. Un ragazzo scherzoso e simpatico. Alto e con i capelli lunghi. Appassionato di moto, di calcio e di musica. Amava portare i Camperos, considerati di destra, ma anche le Clarks, considerate invece, di sinistra. Per lui era un sogno calzare le Desert Boot originali. L’occasione si presentò quando nella palazzina si sparse la voce che un vicino del condominio sarebbe andato a Londra per un viaggio di lavoro. Stefano, raccolse tutti i suoi risparmi e implorò il vicino per comprargli un paio di scarpe colore sabbia. Amava, soprattutto, giocare a flipper. Le sue prime partite con un solo tasto, poi, da solo, con l’obiettivo di superare il record e ottenere una partita gratis. Subito dopo la sparatoria, davanti al bar “Urbano”, si radunarono i primi militanti, formando una specie di sacrario con bandiere del Movimento Sociale Italiano e un cartello con una scritta nera e alcune croci celtiche. In realtà, i tre ragazzi non avevano nessuna tessera di partito e soprattutto non avevano precedenti politici noti, ma nell’immaginario collettivo, il bar “Urbano”, era considerato un ritrovo privilegiato per i militanti della destra da quasi due anni, per un motivo ben preciso. Il 30 marzo del 1975, si era consumata una piccola tragedia familiare. Bruno Giudici, dipendente di banca, scendendo giù la bar, vide il figlio, Vincenzo, coinvolto in una furibonda rissa e aggredito da un militante della sinistra extraparlamentare. Bruno Giudici riuscì a porre fine alla rissa e a recuperare il figlio. Ma dopo l’aggressione, tornato a casa, avvertì un forte dolore al petto accasciandosi al suolo. Morì di infarto nel giro di poche ore. Da allora, quel bar, fu considerato come un avamposto per i militanti di destra. La Magistratura romana non fu capace di individuare i responsabili. Nessun identikit, nessuna traccia, nessun elemento per condurre le indagini sull’omicidio Cecchetti. In ospedale, alla notizia della morte di Stefano, i genitori, svennero. Il riconoscimento della salma fu affidato alla sorella, Carla. Il corpo di Stefano era adagiato sul lettino della sala operatoria coperto dal telo verde del reparto di chirurgia ancora sporco di sangue e con gli occhi semichiusi. Il giorno delle esequie, Carla, vestì per l’ultima volta il fratello. Un maglione a girocollo, un paio di pantaloni di velluto a costa larga e le sue amatissime Clarks Desert Boot color sabbia. Il rito funebre si tenne a Tuscania, in provincia di Viterbo, in forma privata. Tra i presenti tantissimi compagni di scuola.
Tutti i vestiti e le cose di Stefano furono distribuite fra gli amici. L’unica colpa di Stefano Cecchetti fu, nel momento dell’agguato, di avere i Camperos e trovarsi davanti a un baretto di fasci.
UNO DEI NOSTRI GIOVANI, UNA STAGIONE DI DOLORE, ALMENO RICORDIAMOLO CON SERENITA'....
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